Giulio Andreotti (19/1/1919 – 6/5/2013): l’uomo e la Guerra Fredda

Taccuino Italiano, Giornale del Popolo, Lugano, 7 maggio 2013

Giulio Andreotti, scomparso ieri a Roma all’età di 94 anni, si porta nella tomba un primato di longevità politica senza paragoni non solo in Italia ma nel mondo. Membro nel 1946 dell’Assemblea Costituente e poi del Parlamento della Repubblica Italiana da quando venne inaugurato, era stato dapprima sottosegretario, poi ministro o presidente di tutti i governi che si sono succeduti a Roma dal maggio 1947 al luglio 1992. Dal 1991 era senatore a vita per nomina del presidente Francesco Cossiga.

La sua presenza in ruoli di governo sulla scena politica della vicina Repubblica coincide quasi esattamente con gli anni della Guerra Fredda, e non si spiega senza di essa. Anche se non guerreggiata (quanto meno in Europa, ovvero sul suo fronte centrale), la Guerra Fredda fu una guerra a tutti gli effetti, con tutte le radicalizzazioni e le distorsioni che sono tipiche di tale stato di cose. E incise poi in modo del tutto particolare nel caso dell’Italia, dove le aree d’influenza rispettivamente americana e sovietica passavano, caso unico nel mondo, all’interno del Paese, assegnato nelle conferenze dei vincitori della Seconda guerra mondiale al  campo occidentale ma caratterizzato dalla presenza di un forte Partito Comunista. Un Paese che per di più confinava con la Jugoslavia del maresciallo Tito, regime comunista ma non di obbedienza sovietica, tendenzialmente neutrale e quindi corteggiato dagli Stati Uniti. Scelto meno che trentenne da Alcide De Gasperi come sottosegretario alla presidenza del Consiglio e quindi segretario del governo, Giulio Andreotti venne da lui sempre confermato in tale cruciale incarico. Caduto infine De Gasperi nell’agosto 1953, il suo successore Pella lo chiamò ad assumere il medesimo ruolo. Seguì la promozione a ministro dell’Interno nel successivo governo, il primo presieduto da Amintore Fanfani, inizio di una sequenza ininterrotta di incarichi ministeriali durata come si diceva fino al 1992. Forte del consenso di Washington — senza il quale non era allora possibile assumere ruoli di governo-chiave in Italia, paese sconfitto della Seconda guerra mondiale e commissariato dai vincitori — Andreotti governò tenendo realisticamente conto della situazione, nei limiti della quale il suo partito, la Democrazia Cristiana, e lui stesso riuscirono ad aprire all’Italia degli spazi  che le consentirono di passare in vent’anni dalle macerie della Seconda guerra mondiale all’entrata nel 1975 nel G 7, il Gruppo dei sette maggiori Paesi industriali del mondo. Tra i meriti di Andreotti non va poi dimenticato  quello di esser riuscito a tutelare in tutta la misura del possibile il fondamentale interesse geo-politico italiano, che è in primo luogo mediterraneo: impresa non facile tenuto che, a seguito della vittoria anglo-americana nella Seconda guerra mondiale, in campo occidentale l’interesse geo-politico nordatlantico aveva assunto un’assoluta predominanza.

Probabilmente tali meriti gli sarebbe stati più immediatamente riconosciuti se avesse apertamente resa consapevole l’opinione pubblica dei vincoli entro i quali doveva muoversi. Preferì invece lavorare sostanzialmente a porte chiuse, e  questo non lo aiutò a difendersi dai suoi nemici, che gli montarono contro accuse poi non confermate di collusione con la mafia e altri poteri oscuri (da cui uscì scagionato dopo oltre dieci anni di processi); né tanto meno a trovare stima per i suoi meriti e comprensione per i prezzi che dovette pagare non solo per conto proprio  ma anche per conto del Paese.

Informazioni su Robi Ronza

Giornalista e scrittore italiano, esperto di affari internazionali, di problemi istituzionali, e di culture e identità locali.
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