Taccuino Italiano, Giornale del Popolo, Lugano, 28 agosto 2017
Nelle aree del Centro Italia colpite dai terremoti dell’agosto 2016 non cessa di crescere il malcontento per il sin qui mancato avvio del processo di ricostruzione. Nelle scorse settimane il governo ha cercato di “esorcizzare” il primo anniversario della catastrofe mettendo più che mai l’accento sul commosso ricordo delle vittime, e la stampa amica gli ha dato tutto l’aiuto possibile dando eco quasi soltanto alle liturgie in loro suffragio, ma l’oscuramento del disagio e delle proteste è riuscito solo fino a un certo punto.
A un anno dal sisma non solo non è iniziata la ricostruzione, ma non è nemmeno ancora terminata la fase dell’emergenza: quella cioè che si completa solo quando tutte le famiglie e le imprese rimaste senza tetto sono risistemate in alloggi provvisori, e quando le macerie degli edifici distrutti sono state del tutto rimosse e ricollocate. Al 15 agosto scorso su 3827 “casette” promesse agli abitanti rimasti senza tetto nei 51 comuni appenninici colpiti dal sisma, ne erano state consegnate soltanto 534. In quanto alle macerie, senza la cui rimozione non si può non solo ricostruire ma nemmeno progettare le ricostruzioni, ben quattro decreti poi laboriosamente raccolti in una sola legge non sono sin qui bastati a toglierle di mezzo.
E’ clamoroso il confronto con quanto dopo i terremoti del 1976 accadde in Friuli dove la fase dell’emergenza si concluse in pochi mesi, e dove la ricostruzione non solo iniziò in tempi brevi ma anche diventò un potente volano di sviluppo dell’economia locale. Si trattò purtroppo di un caso isolato: la rinascita di tutte le aree successivamente colpite da terremoti in Italia (un terzo del cui territorio è sismico) è stata poi sempre caratterizzata da ritardi, da sprechi e da ulteriore impoverimento dei luoghi. Diventa allora interessante capire le ragioni di questi diversi sviluppi. In sintesi la differenza consiste nel fatto che in Friuli, anche grazie a un insieme di circostanze favorevoli, si scelse la via della sussidiarietà, rispettando il diritto/dovere dei terremotati di farsi direttamente carico della ricostruzione delle loro case e delle loro aziende. In tutti casi successivi invece, fino a quello appunto dei terremoti dell’estate 2016, lo Stato ha preteso di gestire tutto; con i risultati che si vedono.
Facciamo per cominciare il caso degli alloggi provvisori: se invece di procedere a grandi appalti statali si fosse dato un credito entro un certo limite massimo a ogni famiglia senzatetto da spendere con regolari fatture nell’acquisto, nel montaggio e negli allacciamenti di una “casetta”, tutte le 3827 “casette” sarebbero state erette ed abitate nell’arco di pochi mesi dal sisma. Un moderno mercato comune di oltre 500 milioni di abitanti, come l’Unione Europea, è infatti perfettamente in grado di rispondere in breve tempo anche a una domanda straordinaria del genere. Più che in eventuali disonestà ed inefficienze la causa del fallimento sta più a monte: sta nel modello dell’intervento, che è sbagliato alla radice. E siamo ancora soltanto nella fase degli alloggi provvisori. Figuriamoci poi che cosa potrà succedere o non succedere nella fase della ricostruzione definitiva.
Nei giorni dell’emergenza si parlò molto del “modello Friuli”; poi però si è fatto ancora una volta esattamente il contrario. Proviamo allora a riassumere qui gli elementi caratteristici di tale modello. Il primo elemento è la chiara distinzione tra la fase dell’emergenza, che implica un intervento dall’esterno di tipo “militare”, dalla successiva fase della ricostruzione, che è tanto più efficiente, rapida e adeguata quanto più il processo viene messo nelle mani dei diretti interessati. Nelle zone colpite dai terremoti dell’anno scorso si sta invece procrastinando sine die la fase dell’emergenza lasciando un po’ tutto nelle mani della Protezione Civile con l’infondata speranza che così si possa fare ogni cosa presto e bene. Il secondo elemento del modello Friuli fu appunto il riconoscimento ai terremotati del loro diritto e dovere di farsi direttamente carico del processo di ricostruzione degli edifici perduti o della riparazione di quelli danneggiati. Il terzo elemento fu il totale decentramento a livello comunale delle pratiche per i contributi alla ricostruzione. I contributi venivano erogati dal sindaco del luogo che — in forza di un’apposita legge regionale — era pro tempore dirigente regionale a ciò delegato. Grazie a ciò la prima e fondamentale garanzia del buon uso del fondo e della rapidità dell’erogazione dei contributi non era il controllo di polizia bensì il controllo sociale. In tale quadro i fornitori naturali del servizio erano poi in primo luogo professionisti e piccole e medie imprese del posto, e non grandi imprese con buone relazioni a Roma, il che contribuì perciò anche fortemente a rilanciare l’economia locale.