Schierandosi a fianco del Pd contro la convalida della nomina di Marcello Foa a presidente della Rai Silvio Berlusconi sta perdendo la sua ultima occasione per dimostrare ciò che purtroppo non ha mai dimostrato: ossia di volere davvero la rivoluzione liberale che a parole ha sempre promesso, ma poi non ha mai fatto. In base a tale promessa il suo partito diventò la forza politica di maggioranza relativa. Poi però, ogni volta che è stato il momento di qualche decisione-chiave, Berlusconi si è mosso in direzione opposta sperperando tutto il grande consenso democratico che aveva raccolto. E anche questa volta, con un partito ormai in disfacimemto, sta andando ancora nella medesima direzione.
Il nocciolo della questione non è che cosa Foa pensi su ogni possibile problema; tanto più che per nessuno dei suoi predecessori l’opinione pubblica venne mai sollecitata ad una tale minuta analisi. E anche l’eventuale sgarbo di Salvini, che lo avrebbe scelto senza consultarsi con Forza Italia (di cui gli occorrevano i voti per la successiva convalida in Parlamento), conta molto meno del fatto che con Foa per la prima volta alla presidenza della Rai ci sarebbe un vero “outsider” e un vero liberale nel senso originario della parola. Qualcuno cioè con cui si romperebbe la catena di un ordine costituito sin qui incrollabile che è anche più antico della prima Repubblica. Un ordine costituito che risale addirittura ai tempi in cui la Rai si chiamava ancora Eiar ed era la pietra angolare della propaganda del regime fascista. L’ideologia del “servizio pubblico”, un tempo solo radiofonico e oggi radiotelevisivo, che l’establishment della Rai invoca a ogni piè sospinto a tutela dei propri innumerevoli privilegi, altro non è infatti che la frettolosa riverniciatura democratica data nel 1945-46 al vecchio monopolio radiofonico del regime fascista per traghettarlo armi e bagagli nella rinata democrazia italiana.
Tanto ghiotto era tale monopolio che i partiti dell’Italia democratica non seppero resistere alla tentazione di tenerselo per loro. Più tardi, venuto meno il monopolio con la nascita delle radio e delle Tv private, restò tuttavia alla Rai una specie di primogenitura che dura ancora oggi, e che i contribuenti italiani continuano a pagare a caro prezzo. Frattanto, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, l’influsso sulla grande azienda dapprima del Pci e poi dei suoi eredi diventò predominante. Perciò, salvo alcune lodevoli ma limitate eccezioni, oggi il “messaggio” complessivo della Rai si colloca tutto all’interno della cultura laica-radicale in cui gli eredi di Marx sono oggi in massa naufragati, con il tipico misto di moralismo a senso unico e di nichilismo gaio che la caratterizza.
Finché rimane il “servizio pubblico radiotelevisivo” con tutto quel che costa, urge pertanto una grande riforma. Ovviamente non per fare l’opposto bensì per garantire davvero quella “informazione completa, obiettiva, imparziale ed equilibrata”, e quello spazio “al maggior numero possibile di opinioni, tendenze, correnti di pensiero politiche, sociali e culturali presenti nella società”, che in una sua nota sentenza la Corte Costituzionale sancì la Rai si dovesse impegnare per “agevolare la partecipazione dei cittadini allo sviluppo sociale e culturale del Paese”.
In questo quadro la battaglia per la presidenza della Rai è ovviamente uno scontro epocale, ma perché decidere a priori di perderlo?
2 agosto 2018
Sono d’accordo,. Forza Italia (quello che ne era rimasto) con questa scelta si è suicidata.