La cagnara che si è scatenata contro l’eventualità di un’ulteriore autonomia chiesta da tre regioni del Nord (la Lombardia, il Veneto e l’Emilia-Romagna), a norma dell’art. 116 della Costituzione ha innanzitutto questo di positivo: dimostra che finalmente qualcuno voleva fare sul serio. Già se ne aveva avuto sentore vedendo l’accanita campagna contro tale progetto in cui da tempo si è gettato Il Messaggero, il quotidiano di Roma che da sempre è il portavoce degli interessi del blocco di burocrazie parassitarie, statali e para-statali, da cui dipende una bella fetta dell’attuale economia della grande città laziale.
Adesso però l’imminenza della discussione del progetto in sede di Consiglio dei Ministri ha spinto la polemica al massimo, tanto che sono entrate in scena pure le direzioni nazionali dei sindacati storici, ossia della principale fra le burocrazie para-statali di cui si diceva. Per chi è a favore del principio di sussidiarietà — e quindi dell’autonomia responsabile come garanzia di libertà, di spesa pubblica efficiente e di sviluppo per tutti – senza dubbio le cose non si stanno mettendo bene. Basato come è sull’ alleanza tra un partito sempre più timidamente autonomista e un partito centralista per la pelle, sulla questione il governo giallo-verde ha più che mai bisogno di fare il pesce in barile.
Se però le cose non vanno avanti la colpa non è soltanto dell’ovvia resistenza della burocrazia centrale parassitaria trincerata dentro e attorno ai ministeri romani nonché alle consorterie clientelari che nel Sud, ma non solo, vivono sull’ impiego distorto delle risorse pubbliche. Essendo tale resistenza del tutto prevedibile ci si deve piuttosto domandare se la Lombardia, e al suo seguito le altre due Regioni, siano partite con il piede giusto. In un commento dal titolo Dopo il referendum: la trappola in cui dobbiamo ardentemente sperare che Roberto Maroni non vada a cadere — pubblicato il 25 ottobre 2017 su questo stesso sito e scritto poco dopo il referendum consultivo che in quell’ anno ebbe luogo in Lombardia — auspicavamo un aperto confronto politico sul nocciolo della questione, e non una defatigante minuta trattativa a porte chiuse in teoria con il governo nazionale ma in pratica con la burocrazia ministeriale. Invece è proprio questa la trappola in cui si è caduti con i risultati che adesso si cominciano a vedere.
Occorreva (e occorrerebbe ancora) un aperto dibattito politico come occasione per chiarire che quella dell’autonomia differenziata è un’occasione offerta a tutti per mettere in moto una riforma generale delle istituzioni nel nome dell’autonomia responsabile. Lo spreco di risorse e l’ inefficienza della spesa pubblica, che sono l’esito inevitabile dell’attuale sistema istituzionale, non convengono al Nord, ma nemmeno a Roma e al Sud. Come ogni giorno si vede sempre più chiaramente, non solo infatti rendono sempre meno sostenibile il confronto del Nord Italia con le altre aree europee maggiormente avanzate, ma anche non garantiscono affatto servizi essenziali di analoga qualità in tutto il Paese. Il mito dello statalismo illuminato e del centralismo benevolo, che sorprendentemente raccoglie consensi anche in ambienti ecclesiastici, è un grosso equivoco. Autonomia reale e consapevole, concorrenza fiscale, collegamento delle responsabilità sul lato della spesa con quelle sul lato del prelievo fiscale: è questa una ricetta tanto utile per la Lombardia quanto per la Calabria, tanto consigliabile al Veneto quanto alla Puglia. Assai più delle frattaglie dell’art. 116 il nocciolo della questione è perciò la riforma del sistema fiscale a norma del cruciale (ma non a caso dimenticato) art. 119 della Costituzione.
Nel nostro Paese s’intrecciano due comete: la cometa chiara della produttività solidale e la cometa scura del parassitismo assistenzialista. La prima ha la testa nel Nord e l’altra nel Sud, ma le loro due code giungono dappertutto. Non si esce dalla crisi se non si libera la prima dal nefasto abbraccio della seconda. Rientra in questo quadro anche un impegno al riorientamento a fini produttivi dell’economia della città di Roma. Con tutti di servizi che si potrebbero costruire attorno al suo enorme patrimonio monumentale e al suo valore simbolico planetario Roma ha tutti i numeri per diventare un volano di sviluppo per la Penisola non meno potente di quello che Milano è per l’Alta Italia. E quindi per cessare di essere ciò che oggi è: un grande inceneritore di risorse, il gigantesco formaggio attorno a cui roditori mai sazi si affaccendano senza sosta.
18 febbraio 2019