Taranto. Il dramma dell’ex-Ilva e la tragedia di un ceto politico che non capisce quanto sia ormai cambiato il mondo

Italia. La crisi dell’Ilva tra stato e mercato, Corriere del Ticino (*), 20 novembre 2019

Annunciando di volersi ritirare dall’acciaieria di Taranto — che nel settembre 2018 aveva preso in affitto per verificarne le potenzialità e poi decidere se acquistarla — la multinazionale indiana Arcelor-Mittal ha provocato un’ulteriore tempesta nel mare già burrascoso della vita pubblica in Italia.

Quello che sta accadendo a Taranto  è un dramma non solo locale ma nazionale,  tenuto conto del numero dei posti di lavoro e della capacità produttiva che si sta così rischiando di perdere. Più grave ancora di questo pur grave dramma è però la tragedia — emersa con grande chiarezza nella circostanza —  di un governo e di forze politiche che  sembrano non capire quanto sia ormai cambiato il mondo.

Pur essendo la più grande d’Europa e del Mediterraneo, l’acciaieria di Taranto contribuisce attuamente per meno del 5 per cento alla produzione complessiva di Arcelor-Mittal. Se il gruppo vuole andarsene dall’Italia lasciando l’Ilva al suo destino nessuno in Italia glielo può impedire a viva forza: nè il governo italiano con i suoi decreti e i “blitz” della sua Guardia di Finanza, nè la magistratura italiana con le sue carte bollate, e nemmeno i sindacati italiani con i loro scioperi. Di fronte a una multinazionale di quelle dimensioni tutti ciò conta come il due di picche. In  un mercato unico divenuto planetario, e nel confronto  con una multinazionale senza alcuna radice in Italia,i tradizionali  strumenti di pressione politica, sociale e giudiziaria alla scala nazionale non funzionano più. Sembra però né i 5 Stelle né i magistrati in sintonia con loro se ne accorgano.

La crisi dell’acciaieria di Taranto è sin qui l’ultimo capitolo di una storia iniziata nel 1905 quando venne fondato un gruppo siderurgico il cui primo stabilimento lavorava a Piombino (Livorno) minerale di ferro proveniente dall’isola d’Elba. Il nuovo gruppo venne perciò chiamato Ilva dall’antico nome latino dell’isola.

Inaugurata nel 1961, l’acciaieria di Taranto è il più recente dei suoi stabilimenti. Estesa su un’area di circa 15 milioni di metri quadri, ai tempi della gestione statale giunse ad avere fino a 25 mila addetti. Oggi sono 8200 di cui 1400 restano a casa ma ricevono dallo Stato un assegno pari al loro stipendio-base tramite un meccanismo di assistenza chiamato Cassa integrazione guadagni, Cig.

Negli oltre cento anni della sua tormentata storia il gruppo subì vari cambi di nome, tra cui quello che più resta nella memoria è Italsider.  Divenuto statale negli anni ‘20 del secolo scorso, il gruppo tornò ad essere di proprietà privata nel 1995 andando però presto incontro a nuovi problemi. Con l’accusa di aver provocato un grave inquinamento dell’ambiente, i nuovi proprietari e i loro massimi dirigenti vennero infine arrestati. Nel 2012 lo Stato riprese allora il controllo del gruppo tramite dei commissari incaricati di avviare il risanamento dell’impianto e di cercare un nuovo compratore.

Di proprietà indiana, ma con sede legale nel Lussemburgo, l’Arcelor-Mittal – che ha ora annunciato di voler restituire l’ex-Ilva ai commissari il prossimo 4 dicembre — è il più grande gruppo  siderurgico del mondo. Nelle sue fabbriche, sparse nei più diversi continenti, produce circa 114 milioni di tonnellate di acciaio all’anno e i suoi ricavi annui ammontano a oltre 100 miliardi di dollari.

A far scoppiare la crisi è stata la decisione, tenacemente voluta dal Movimento 5 Stelle, di abolire lo “scudo penale” stabilito sin dal decreto con cui il governo Renzi confiscò l’acciaieria e la affidò ai commissari di cui si diceva. Per “scudo penale” s’intende una norma ad hoc in forza della quale chi al momento gestisce l’azienda, pur essendone il legale rappresentante, non può essere oggetto di denunce per reati ambientali  imputabili a gestioni precedenti.

Nello scorso giugno 2019 il governo giallo-verde (5 Stelle/Lega) aveva abrogato lo “scudo penale” su pressione dei pentastellati. Avendo perciò Arcelor-Mittal subito  minacciato di abbandonare l’ex-Ilva al suo destino, lo scorso 21 ottobre Luigi Di Maio, in quanto capo delegazione dei 5 Stelle nel nuovo governo giallo-rosso (5 Stelle/Pd), aveva cercato di inserire il ripristino dello scudo penale nel cosiddetto “decreto salva-imprese”. Di Maio dovette tuttavia fare marcia indietro perché 17 senatori pentastellati avevano minacciato, se lo scudo fosse rimasto, di votare contro il decreto.  Di fronte a questo sostanziale mutamento rispetto al quadro giuridico vigente quando l’accordo era stato sottoscritto, Arcelor-Mittal ha allora deciso di restituire l’ex-Ilva ai commissari del governo italiano, che a questo punto si ritroverebbero tra l’altro in mano l’azienda senza più disporre nemmeno loro dello scudo penale.

Che cosa potrà succedere adesso? Il governo di Roma comincia a far balenare la possibilità che lo scudo penale venga ripristinato. Arcelor-Mittal prima ha detto di voler spegnere gli alti forni di Taranto ma poi è tornato sui suoi passi. Venerdì prossimo il premier italiano Conte si incontrerà con i vertici della multinazionale indiana. Magari è possibile che si arrivi a un qualche accordo grazie a cui Arcelor-Mittal resterà a Taranto a patto di una consistente riduzione del numero degli operai nello stabilimento. Forse non a caso l’azienda ha fatto circolare la notizia dell’inizio della costruzione in India di una sua nuova acciaieria che con soli 4 mila addetti  potrà produrre circa 10 milioni di tonnellate di acciaio all’anno (quando Taranto, con i suoi attuali 8200 addetti, ne produrrà quest’anno solo 4 milioni).

Può anche darsi che, di fronte all’attuale continuo ridursi della domanda di acciaio alla scala mondiale, Arcelor-Mittal abbia colto al volo l’occasione per rinunciare, o nella migliore delle ipotesi ridimensionare, un investimento che non gli conveniva più tanto come prima. A maggior ragione però qualcuno a Roma dovrebbe allora domandarsi se non sarebbe stato meglio non essere così sciocchi da offrire  ad Arcelor-Mittal tale occasione sul proverbiale piatto d’argento.

(*) Quotidiano della Svizzera Italiana

P.S. Rispetto all’originale pubblicato sul Corriere del Ticino,  il testo è stato qui riorganizzato, pur senza cambiarne il senso, per meglio adattarlo al pubblico italiano. 

 

 

Informazioni su Robi Ronza

Giornalista e scrittore italiano, esperto di affari internazionali, di problemi istituzionali, e di culture e identità locali.
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3 risposte a Taranto. Il dramma dell’ex-Ilva e la tragedia di un ceto politico che non capisce quanto sia ormai cambiato il mondo

  1. Cesare Chiericati ha detto:

    Al netto di tutti gli errori commessi a staffetta dai tre governi che hanno gestito la vicenda ex Ilva ( Renzi, Conte 1 con il concorso non trascurabile di Matteo Salvini e Conte 2) non mi pare proprio che Arcelor Mittal sia esattamente un gruppo di benefattori disposto ad elargire aiuti a buon mercato alle aziende siderurgiche in crisi. E’ al contrario una società multinazionale che tende al monopolio e dunque ad eliminare i concorrenti, secondo una logica consolidata del capitalismo industriale, anche a livelli assai meno importanti per produzione e fatturati. Operazioni tipo Taranto AM le ha già portate a termine in Polonia, in Romania e altrove. Non ci si deve stupire fanno il loro mestiere, ma mi sembra francamente troppo far finta di niente e porgere l’altra guancia anziché cercare di limitare i danni. Forse degli enormi problemi di Taranto la classe politica italiana avrebbe dovuto occuparsene già qualche decennio fa anziché mettere la testa sotto la sabbia e servire l’Ilva su un piatto d’argento alla famiglia Riva.

    • Robi Ronza ha detto:

      Non ho santificato ArcelorMittal. Ho detto che oggi non ci si può confrontare con una multinazionale brandendo strumenti che risalgono all’epoca della guerra fredda e a prima della globalizzazione.

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