È meglio non considerare cronaca passata il discorso sullo stato dell’Unione che la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha pronunciato lo scorso 16 settembre davanti all’Europarlamento. Lo si ritrova facilmente in Internet anche nella traduzione italiana e vale la pena di leggerlo attentamente.
Per quanto mi riguarda, di questa presidente mi piace il fatto che sia madre di sette figli, a salutare monito di tutte le donne in carriera come lei. Di solito le donne che puntano a tutta forza sulla carriera rinunciano alla maternità oppure, tanto per dimostrare che sanno fare di tutto, mettono al mondo un solo figlio (poi in pratica spesso lasciato emotivamente… in stato di abbandono), dedicandosi quindi a tempo pieno alla ricerca spasmodica del loro successo professionale. Ursula von der Leyen ha invece saputo puntare in alto con grandi risultati sia nel campo familiare che in quello pubblico.
Ciò detto, che comunque è molto, su di lei non ho altro di buono da aggiungere. Per il resto infatti Von der Leyen non è soltanto una nobile signora molto a modo. Prima di questo è un simbolo e un antesignano di quella tecnocrazia di cultura relativistica che cerca di imporsi nell’Unione Europea a spese della libertà, della democrazia e della grande eredità culturale dei popoli europei.
Il discorso sullo stato dell’Unione del 16 settembre scorso, il primo del suo mandato, ha il tono e lo stile dell’annuale analogo discorso del presidente degli Stati Uniti. Senonché quest’ultimo è un capo di governo eletto democraticamente dal popolo mentre Von der Leyen è capo di una commissione istruttoria nominata dagli Stati membri che poi il Parlamento Europeo, confermando così di essere una semplice camera di revisione, non può scegliere ma soltanto o approvare o respingere. Inoltre su buona parte delle materie, su cui nel suo discorso Von der Leyen ha annunciato con tono sovrano i suoi programmi, l’Unione o non ha competenze o ha competenze condivise con gli Stati membri.
In quanto poi alla sua filosofia, basti dire che nel suo discorso, mentre non ha fatto alcun cenno alla famiglia, ha dedicato un intero paragrafo, di cui in Italia si è parlato poco o nulla, a «La strategia della Commissione europea per rafforzare i diritti Lgbtqi». Eccone il testo integrale:
“Onorevoli parlamentari,
Non rallenterò di fronte alla possibilità di costruire un’Unione di uguaglianza. Un’Unione in cui puoi essere chi sei e amare chi vuoi, senza timore di recriminazioni o discriminazioni. Perché essere te stesso non è la tua ideologia. È la tua identità. E nessuno potrà mai portartelo via. Quindi, voglio essere chiara: le zone in cui non sono rispettati i diritti della comunità Lgbtqi sono zone in cui non c’è umanità. E non è ammissibile nell’Unione. E per essere sicuri di sostenere l’intera comunità, la Commissione presenterà presto una strategia per rafforzare i diritti Lgbtqi.
Per questo motivo spingerò anche per il riconoscimento reciproco delle relazioni familiari nell’Unione europea. Se sei genitore in un Paese, sei genitore in ogni Paese.”
Orbene, a parte il fatto che nel trattato di Lisbona non sta scritto da nessuna parte che la Commissione si debba occupare di queste materie, è interessante notare il carattere arbitario della pretesa con cui il paragrafo si conclude. Chi l’ha detto che “Se sei genitore in un Paese, sei genitore in ogni Paese”? A prescindere da ogni altra considerazione, a rigor di logica vale anche l’esatto contrario: “Se non sei genitore in un Paese non lo sei nemmeno negli altri Paesi”. È meglio quindi e nell’interesse di tutti che la Commissione lasci stare, e non si intrufoli in campi del diritto che sono di competenza degli Stati.
Venendo prima di concludere alla sostanza della questione, è il caso di ribadire (se mai qualcuno non se ne fosse ancora accorto) che con l’espressione «diritti Lgbtqi» non si intende oggi la rivendicazione dell diritto di avere un orientamento sessuale diverso da quello secondo natura e quindi prevalente. Nei Paesi dell’Unione Europea questo diritto non viene negato da nessuno o perché non lo è più da oltre un secolo, come in Italia e in altri Paesi del Sud Europa, o perché come nel Nord Europa il suo divieto è stato infine abrogato alcuni decenni or sono (tanto per fare qualche esempio: in Svezia nel 1944, in Gran Bretagna nel 1967, nella Repubblica federale di Germania nel 1969, in Finlandia nel 1971).
La posta in gioco attorno al tema dei «diritti Lgbtqi» è in effetti assai più culturale che giuridica: è la pretesa di “normalizzare” i comportamenti sessuali contro natura e di affermarli come equivalenti a quelli secondo natura. Una questione su cui più che mai non si capisce perché la Commissione dell’Ue dovrebbe intervenire.
23 settembre 2020
Condivido ogni virgola, Dott. Ronza.
E, a dire il vero, avrei anche aggiunto qualcosina sull’immonda ed ennesima pantomima relativa al problema dei migranti, della serie “sono solidale ma alla fine i problemi te li gratti da solo”. Per giunta, con l’Alan Kurdi alle porte, per la presidente non era il caso di dare dispiaceri ai suoi capibastone. E qui da noi? A parte il silenzio quasi totale sul nuovo arrivo migrantaxi (d’altronde c’erano le elezioni, la Lamorgese ha adottato la procedura standard della mordacchia), il governo per bocca del suo ineffabile presidente del consiglio ha esultato fantasticando di un grande “passo avanti”. Come disse il lombrico verso la bocca del camaleonte.
Mi stia bene.
L’ha ripubblicato su gipoblog.
Questa signora è il campione del ppe. Suo totem da affiancare alla Croce. Tutto questo è l’Europa popolare, la sua! Adessose la tenga e smetta di essere ipocrita