pubblicato con altro titolo su Liberal / ottobre 2005
Si può parlare di una nuova dimensione culturale del cattolicesimo politico italiano? Penso di sì, ma ciò è solo un riflesso della rinnovata presenza dell’annuncio cristiano e dell’esperienza cristiana nel mondo in cui viviamo. Credo quindi che valga la pena di situare il fenomeno entro il più vasto orizzonte cui effettivamente appartiene.
Anche se ancora ricca di opere nonché di consenso e di prestigio sociale, nel secolo appena trascorso la Chiesa era entrata già molto indebolita. Alla vigilia del 2000 tale eredità risultava ormai consumata. In Occidente l’ebbrezza di un progresso tecnico peraltro gigantesco aveva frattanto portato con sé una formidabile censura della naturale domanda sul significato della vita e della morte. Di qui il diffondersi di un ateismo pratico di massa che ha messo alle corde non solo la fede ma anche la filosofia. Da questo punto di vista la presenza politica organizzata dei cattolici e dei loro partiti, dal Centrum tedesco fino alle Democrazie Cristiane del secondo dopoguerra, è stata quasi irrilevante. Forse ha rallentato il processo, ma niente più. Della sinistra cristiana, anche della più originale e consapevole (penso ad esempio a Emmanuel Mounier, al Maritain de L’umanesimo integrale) si deve dire lo stesso. Alla prova dei fatti si è rivelata incapace di essere concretamente alternativa al marxismo, frutto estremo della modernità al tramonto; e d’altra parte non ha poi nemmeno retto alla pressione del relativismo e del nichilismo di massa che il crollo della speranza marxista, rivoluzionaria o riformista che fosse, ha lasciato dietro di sé. Il santuario mariano di Ronchamp, capolavoro di Le Corbusier, semivuoto persino per la festa dell’Assunzione a Ferragosto, e altre raffinate chiese francesi contemporanee non meno vuote delle più insigni cattedrali, di ciò sono segno impressionante e clamoroso. Tutto questo umanamente può dispiacere a chi, come anche io stesso, incontrò e apprezzò tale cultura negli anni della sua formazione. Nondimeno i fatti sono fatti, e ignorarli non è di aiuto per nessuno.
Un “fiume carsico” di esperienze e di pensiero
Nel medesimo tempo però il secolo XX è stato anche percorso per così dire da un fiume carsico di esperienze e di pensiero cristiani autentici, vitali e consapevolmente immuni dalle strettoie del razionalismo illuminista. Mi riferisco a filosofi-teologi cattolici come l’italo-tedesco Romano Guardini (1885-1968), autore tra l’altro del magistrale La fine dell’epoca moderna (1950), l’italiano Augusto Del Noce (1910-1990), il francese Henri De Lubac (1896-1988), cui si deve l’illuminante Il dramma dell’umanesimo ateo (1945), lo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988) che prendendo le mosse dall’estetica, dalla contemplazione della bellezza invece che dalla dogmatica, riformulò radicalmente il pensiero teologico; protestanti come il tedesco-americano Reinhold Niebuhr (1892-1971) e lo svizzero Karl Barth (1886-1968); ortodossi come il russo Nikolaj Berdjaev (1874-1948). Più o meno tutti quanti o combattuti o ignorati dalla cultura ufficiale del loro tempo, questi pensatori posero le basi per una riproposizione non subalterna dell’ipotesi cristiana al mondo secolarizzato contemporaneo. E’ a partire da tale censurato ma monumentale pensiero che uomini come Karol Wojtila, Joseph Ratzinger, Luigi Giussani e altri hanno cominciato a riannunciare Cristo al mondo contemporaneo.
A metà del secolo, benché ormai nell’Occidente, e nell’Europa in particolare, la secolarizzazione stesse diventando un fenomeno di massa, buona parte della Chiesa istituzionale italiana era ancora ferma all’idea della società naturaliter christiana, che sarebbe bastato sostenere con strutture ben organizzate e con l’educazione morale. Puntava perciò tutte le sue carte sull’associazione laicale unica alle dirette dipendenze dell’episcopato, l’Azione Cattolica, con la sua miriade di sub-associazioni di settore: dei giovani, delle donne, degli uomini, degli studenti universitari, degli operai, dei contadini eccetera. Un’altra parte della Chiesa invece, insieme al grosso dell’intellighenzija cattolica, si sentiva come annichilita dal successo storico della modernità. La giudicava un fenomeno comunque irrefrenabile e definitivo, cui la gente di fede non poteva né dare un contributo significativo né fare effettivamente alternativa. Meglio dunque accettare un ruolo di comprimari ritagliandosi il compito di “crocerossine” e di cappellani dell’ordine costituito, specializzati nel fornire supplementi di misericordia e di moralità: materiali di cui gli altri, i veri protagonisti si supponeva avessero scorte limitate. Il “cattolicesimo politico” tradizionale—diciamo venendo al nostro tema— rientra tutto nel quadro che abbiamo appena accennato. Con in più, nel caso italiano, la complicazione della “guerra fredda” che impose ai cattolici italiani l’arroccamento nella Democrazia Cristiana: un arroccamento, ribadiamo, che fu imposto obiettivamente dal ruolo che l’Italia aveva in quel conflitto ( per fortuna non guerreggiato ma tale ad ogni altro effetto), e non da chissà quale nostalgia di potere temporale della Chiesa.
Come già era accaduto ai tempi di Benedetto e di Francesco
Come già in precedenza era accaduto in epoche di altrettanto impetuosa transizione (si pensi al movimento benedettino nell’Alto Medioevo e ai movimenti francescano e domenicano nei secoli XIII e XIV) al ritardo dell’istituzione supplirono dei nuovi movimenti ecclesiali. Sorti attorno agli anni ’50, questi movimenti negli anni ’70 avevano ormai assunto un ruolo di grande rilievo. Come si vede in modo particolarmente chiaro nel caso di Comunione e Liberazione, essi miravano e mirano a riproporre Cristo quale risposta alla domanda insoddisfatta di senso e di felicità di ogni persona. Dando per scontata la secolarizzazione della vita contemporanea, in questi movimenti Cristo viene riannunciato a chiunque con un metodo e in forme che in prima battuta prescindono dal legame che ciascuno può ancora avere o non avere più con la tradizione cattolica o anche cristiana in senso lato. Due opere di Luigi Giussani (1922-2005), fondatore di Comunione e Liberazione, Il senso religioso (1968/1986) e Il rischio educativo (1977) consentono di bene farsi un’idea di tale metodo e di tali forme.
Dal 1978 quest’opera di riannuncio (= rievangelizzazione) della fede cristiana al mondo contemporaneo ha trovato una colossale spinta nel papato di Giovanni Paolo II. Dopo un declino durato per quasi tutta l’epoca moderna, con Giovanni Paolo II giunge al cuore della Chiesa cattolica la lunga onda di quel processo di ripresa dell’esperienza cristiana di cui si diceva, che è venuto alla ribalta con i nuovi movimenti ecclesiali nati a metà del secolo, ma le cui prime origini si possono già rintracciare nella teologia dell’inglese John Henry Newman (1801-1890) e nell’opera di Leone XIII. Un obiettivo cui avevano già mirato i papi Giovanni XXIII e Paolo VI convocando e concludendo il Concilio Vaticano II ma che in molta parte era stato disatteso non tanto dai suoi risultati quanto dall’interpretazione spesso sbilanciata che l’intellighenzija cattolica sia ecclesiastica che laica degli anni ’60 aveva dato ai suoi documenti dottrinali (in particolare con il diffuso oblìo dei contenuti della Lumen Gentium, documento fondamentale sulla Chiesa, ignorando il quale la Gaudium et Spes, il cui tema sono i rapporti tra fede e modernità, può anche venire letta in modo secolarizzante). Perciò, per essendo riuscito a riportare la proposta cristiana alla ribalta dell’attualità, il Concilio non aveva affatto né rallentato né tanto meno frenato quel distacco dalla Chiesa e dalla fede cristiana che – avviatosi nella seconda metà del secolo XVIII in ristretti circoli di intellettuali borghesi – proprio in quegli anni stava raggiungendo le nuove masse della società contemporanea.
Scontri e incontri cruciali
Da tutto questo al “cattolicesimo politico” (dico accettando per comodità una locuzione che personalmente non mi entusiasma) il cammino è comunque ancora lungo. Si diventa cristiani perché in Cristo si è trovata una risposta convincente al mistero della vita e della morte, e perché la fede è lo sbocco più ragionevole della ragione; dunque per motivi che precedono largamente l’interesse per la politica. In un tale contesto la politica è soltanto un corollario, seppur di grande rilievo. Pertanto nella misura in cui si è davvero cristiani – osservo qui per inciso — qualsiasi divisione in campo politico è spiacevole ma non sostanziale.
La vicenda, molto specifica, del cattolicesimo politico italiano diventa chiara soltanto se viene situata entro tale orizzonte complessivo. E innanzitutto si coglie allora chiaramente come le radici del passaggio dalla vecchia alla nuova stagione del nostro cattolicesimo politico risalgono al conflitto che all’inizio degli anni ’60 oppose all’Università cattolica di Milano gli allievi di don Luigi Giussani e quelli del prof. Giuseppe Lazzati. Il nocciolo della questione era appunto il giudizio sulla modernità e quindi sulle sue ultime filosofie (il marxismo ma prima ancora le riedizioni più recenti della cultura giacobina). Se cioè queste fossero l’unica acqua in cui si dovesse nuotare, seppur cercando di farlo controcorrente; oppure se fosse meglio tuffarsi altrove. Sopraggiunse poi anche il ’68 con tutto quel che ne seguì. Le posizioni in cui si trovano oggi allievi di Luigi Giussani come Roberto Formigoni, e rispettivamente allievi di Giuseppe Lazzati come Franco Bassanini, Luigi Covatta, Pippo Ranci Ortigosa e Franco Monaco consentono di valutare le conseguenze delle diverse risposte che allora vennero date alla questione. Seppur con diverse accentuazioni culturali, analoga a quella degli allievi di Lazzati fu la risposta dei cattolici riuniti a Bologna attorno alla rivista Il Mulino e all’Istituto Carlo Cattaneo; e analoghe le conseguenze, come si vede dall’itinerario di Romano Prodi, quello tra loro che ha fatto più fortuna politica.
Vale poi la pena di ricordare che circa vent’anni dopo, invitato a prendere la parola al congresso nazionale della Democrazia Cristiana riunitosi nel 1987 al centro congressi di Assago (Milano) Luigi Giussani pronunciò un discorso divenuto ormai celebre (e oggi reperibile sotto il titolo “Assago 1987. Senso religioso, opere, politica” in L’io, il potere, le opere, una raccolta di suoi interventi in tema di filosofia politica pubblicati dall’editore Marietti nel 2000). L’intervento, noto appunto come “discorso di Assago”, è un vero e proprio manifesto del nuovo cattolicesimo politico cui qui ci si riferisce. Non lo riporto qui per economia di spazio ma si tratta di un’integrazione necessaria del presente testo.
Frattanto anche in campo liberale si era venuto sviluppando un analogo “fiume carsico” di pensiero immune da contaminazioni giacobine. Un pensiero di cui Frédéric Bastiat può essere indicato come il grande precursore. Per l’idea di persona che lo caratterizza il liberalismo si situa naturalmente in un orizzonte di matrice cristiana. Perciò, pur se di straordinaria importanza, non è tuttavia sorprendente il dialogo che negli ultimi anni, alla vigilia della sua elezione a Papa, si sviluppò tra Joseph Ratzinger e Marcello Pera. Un dialogo culminato nella proposta avanzata da Ratzinger ai “laici” di vivere e indirizzare la propria vita veluti si Deus daretur; e dalla risposta di Pera secondo cui “la proposta è da accettare e la sfida da accogliere. Per una ragione principale: perché il laico che agisca veluti si Deus daretur diventa moralmente più responsabile (…) Veluti si Deus daretur. E’ una scommessa che ha come posta il nostro impegno e come premio la nostra salvezza”.
La cultura e il progetto del nuovo cattolicesimo politico
Qual è la cultura, qual è il progetto che caratterizzano il nuovo “cattolicesimo politico” italiano e come esso può intrecciarsi con la nuova cultura liberale? Rispondo citando un discorso di Roberto Formigoni del febbraio 2003. Parlando a un convegno a proposito dell’apporto specifico suo e dei suoi alla piattaforma politica di Forza Italia, il presidente lombardo disse tra l’altro in tale circostanza:
“Vorrei soffermarmi innanzitutto sull’idea di laicità, che è tipicamente di matrice cristiana, prima ancora che tipicamente di matrice moderna. In proposito la modernità ha avuto la funzione, pur importante, di catalizzatore storico; ma non a caso l’ha avuta soltanto in Occidente. Fuori dell’Occidente la modernità ha avuto ben altri effetti, e ciò non solo in situazioni di scarso sviluppo. Fuori dell’Occidente infatti il seme della laicità non era mai stato gettato, e quindi nessuna stagione storicamente favorevole ha potuto farlo germogliare.
Tutto questo mi fa dire che — non malgrado ma anzi grazie alla mia identità — mi trovo molto a mio agio in una realtà laica come Forza Italia. Un soggetto politico grazie a cui sulla scena della vita pubblica italiana si sono affacciati un blocco sociale e quindi una classe politica nuovi e discontinui rispetto a un “ordine costituito” stanco e declinante, fatto di grande industria manifatturiera protetta dallo Stato, di grandi sindacati sempre più corporativi e sempre più intrecciati con la macchina statale, di burocrazia parassitaria, di centralismo e di monopoli statali di tutti i grandi servizi di massa da quello della scuola a quello dei tabacchi. Un ordine costituito stanco e declinante anche sul piano dei valori e dei progetti; frutto non casuale di un intreccio tra moralismo clericale e nichilismo post-illuminista.
Per Forza Italia, forza laica nel senso positivo cui più sopra accennavo, la ricaduta o comunque la vulnerabilità di fronte al rischio del relativismo etico e del nichilismo sarebbero perciò un ben grave incidente di percorso. Forza Italia deve sfuggire al rischio di lasciarsi annichilire culturalmente dagli eredi del vecchio ordine costituito. In tale prospettiva è urgente riaffermare un’idea forte di laicità, come luogo non della dissoluzione dei valori ma dell’affermazione pacifica dei valori e del confronto positivo dei progetti.
Si tratta di contrastare l’idea nefasta che il relativismo etico sia un presidio di libertà; che in nome della libertà si debba rinunciare alla ricerca della verità e del bene comune. In questa battaglia ritengo possa essere determinante il contributo di quei cattolici che – senza negare il valore storico dell’esperienza democristiana, ma ritenendola appunto una vicenda ormai del tutto conclusa – si sono impegnati in Forza Italia senza nostalgie e con obiettivi di tipo nient’affatto difensivo o consolatorio, bensì offrendo al partito proposte ed esperienze politiche elaborate a partire da una cultura di matrice cristiana, ma laica nel senso positivo del termine. […]
La nostra cultura e la nostra presenza sociale non hanno parentela alcuna nemmeno alla lontana con la cultura e la presenza sociale dell’Ulivo e del resto dell’attuale opposizione. Abbiamo avuto altri maestri, abbiamo letto altri libri, abbiamo fatto un altro ’68, siamo stati e siamo molto presenti nella vita sociale, ma sempre a modo nostro. Al di là della specifica e piena responsabilità che ci assumiamo rispetto alle nostre scelte contingenti, il vivere nella Chiesa ci pone di fatto entro un orizzonte molto vasto e molto ricco di fermenti morali e culturali. Non da ieri o dall’altro ieri, ma da decine d’anni abbiamo normali, consolidate e vaste relazioni internazionali tanto verso il Nord quanto verso il Sud del mondo. […]
Sul piano sia della cultura che della presenza sociale non nutriamo verso la sinistra complessi d’inferiorità né confessati né inconfessati. Non abbiamo atteso la caduta del Muro per lasciarci alle spalle Hegel e Marx. Ce li eravamo già lasciati alle spalle da ragazzi. In quanto a filosofia della politica e della società ci siamo formati su Maritain, su Teilhard de Chardin, su Berdjaev, su Guardini, su Niebuhr; e l’autoritarismo irrimediabile dei “socialismi reali” ci era già ben chiaro fin dagli anni ’60. Né abbiamo dovuto aspettare il trattato di Maastricht per scoprire il principio di sussidiarietà per il semplice fatto che esso emerge dentro la dottrina sociale della Chiesa e si trova già formulato – e in modo ben più completo — nell’enciclica Quadragesimo Anno del 1931.
Ed è appunto dal principio di sussidiarietà (e dal federalismo che ne è il riflesso a livello istituzionale) che vorrei qui prendere le mosse per indicare quelle che a parer mio sono alcune strade maestre irrinunciabili del progetto politico di Forza Italia.L’impegno a favore della sussidiarietà e del federalismo non sono un favore che Forza Italia fa ai cattolici e alla Lega Nord, con tutti gli alti e bassi delle cose che si fanno per fare un favore. La sussidiarietà in primo luogo “orizzontale” – ovvero il primato effettivo, voluto praticato della persona e della società civile sulla sfera del potere politico – è l’unico modo per rianimare quella società italiana “con le pile scariche” di cui si parla nel Rapporto Censis pubblicato nello scorso dicembre.La transizione effettiva dal Welfare State alla Welfare Society è l’unico modo per evitare il collasso del sistema di sicurezza sociale sotto la spinta contrapposta dell’esplosione della spesa da una lato e dall’altro di un crescita talvolta sproporzionata delle aspettative. Il federalismo reale, quindi innanzitutto fiscale, dove ogni livello di governo ha piena autonomia sia di prelievo che di spesa, e dove quindi c’è sempre un rapporto trasparente e diretto tra il primo e la seconda, è l’unico modo per rendere efficiente la pubblica amministrazione e ridurre la spesa pubblica in modo democratico.
Sussidiarietà e federalismo perciò non sono un lusso o un obiettivo cui metter mano quando tutto sarà a posto. Per Forza Italia essi sono e devono essere un irrinunciabile punto di partenza, non un auspicabile punto di arrivo.
Scuola, università, ricerca, politica delle infrastrutture, garanzia e mantenimento di condizioni favorevoli alla crescita della piccola e media impresa, dalla tutela della legalità allo sviluppo di un vero mercato del credito; anche però garanzia e mantenimento di condizioni favorevoli alla crescita della grande impresa capace di stare sulle sue gambe sui mercati internazionali aprendo la via all’intero “sistema Italia”: in tutti questi campi occorre individuare obiettivi precisi e largamente condivisibili dall’opinione pubblica, comunicarli con chiarezza e poi perseguirli accompagnandoli con una politica della comunicazione fatta in modo continuo.
Ritengo poi importante che l’Italia stia in Europa sempre più con la consapevolezza e con l’autorevolezza che le viene in sede culturale dall’essere elemento originario essenziale dell’identità europea, e in sede politica dall’essere Paese fondatore delle istituzioni europee. Diversamente da quanto troppo spesso si dice, l’Italia è Europa; quindi né deve entrare né può uscire dal nostro Continente e dell’Unione. Casomai il problema è che deve starci in modo sempre più attivo e originale ponendosi quale polo primario di espressione e di tutela dell’identità del Sudeuropa mediterraneo nonché dei suoi legittimi interessi geo-politici. Inoltre occorre che, accanto al continuo consolidamento dei rapporti con il resto dell’Unione e con i grandi Paesi di ogni continente, l’Italia sviluppi sempre più una sua politica di positivo vicinato verso l’Europa balcanica e danubiana e verso il Levante mediterraneo. […]
Ognuno di noi, ognuna delle nostre aree deve fare attivamente e lealmente la propria parte. E non c’è più molto tempo da perdere perché, a oltre dieci anni dalla caduta del Muro di Berlino e quindi dalla fine degli equilibri fissati a Jalta e Potsdam, non si può più fare impunemente come se tutte le grandi linee di fondo fossero ancora bloccate come furono tra il 1945-48 e il 1989-91. Allora “concretezza” poteva significare fare molto spesso due passi avanti e tre indietro ovvero saltellare sul posto. Era “concreto” perché non si poteva fare altro. Oggi non è più e non può più essere così. Oggi i nostri elettori ci chiedono un’altra “concretezza”: quella di fare le grandi riforme che abbiamo promesso, che da tempo è urgente fare e che oggi sono concretamente possibili. E non ci perdoneranno se, potendo essere concreti come si deve esserlo oggi, persisteremo invece in una concretezza d’altri tempi. “
C’è spazio oggi nell’area di centro-destra – osservo concludendo — per una cultura e per una politica del genere? Dobbiamo augurarcelo, anzi dobbiamo volerlo.
Molto bello l’intervento di Formigoni, me lo ricordavo a malapena. Peccato che in Forza Italia sia prevalsa la stoltezza del cadreghino attaccato al fondello fino ai cent’anni (chi era migliore ha dovuto andarsene perché non si pensa mai alla successione, e qs vale anche per Formigoni che non ha saputo mollare al momento giusto e far crescere altri dopo di lui) e quel che è peggio questa cultura sia sparita dalla scena e abbia vinto una mentalità statalista, centralista, massonica e assolutamente anti sussidiaria. Questo cambiamento ha forse provocato la nascita del nuovo centrodestra che però mi sembra ancora succube del complesso del sostegno al governo e della governabilità costi quel che costi, foss’anco il motivo per cui era nato. Dov’è oggi la sussidiarietà? La riforma costituzionale da che parte va? Più società e meno stato? A me non sembra. Giancarlo