Estratto da Autori Vari, Innovare la democrazia. Teorie ed esperienze di deliberazione pubblica, cap.10, Guerini e Associati, Milano,2010.
Introduzione
La necessità di innovare le forme della democrazia è oggi tanto evidente quanto il rischio che nel processo si aprano dei varchi alle forti tendenze neo-autoritarie che caratterizzano la stagione della post-modernità in cui viviamo: tendenze che, essendo “dolci” ed essendo intrecciate con molte buone intenzioni, hanno anche l’ulteriore difetto di essere per lo più poco evidenti, e quindi di non suscitare immediatamente l’istintiva repulsione che sorgeva a suo tempo al passaggio dei gagliardetti e all’eco del passo con le scarpe chiodate.
Nel caso particolare del nostro paese, in sede di dibattito teorico un ulteriore rischio di confusione viene dall’uso smodato in campo scientifico o dell’inglese o di un italiano anglicizzato senza tener conto della scarsa competenza linguistica di quei troppi lettori i quali hanno dell’inglese una conoscenza soltanto pratica e attinta per soprammercato alla sua versione filologicamente meno consapevole e semanticamente più instabile, ossia a quella statunitense. Facciamo un esempio che ci riguarda qui da più vicino, quello di “deliberazione pubblica”. Quanti lettori sapranno che in inglese «public deliberation» significa «dibattito aperto a tutti» e nient’affatto, come a molti potrebbe sembrare, «decisione ufficiale»? Quanti sapranno che in inglese, to deliberate non significa per nulla decidere bensì, come si legge nel Concise Oxford Dictionary, “think carefully; take council, consult, hold debate, consider”: qualcosa dunque che non ha nulla a che vedere con l’atto specifico della decisione. Anche poi la parola governance, che in orecchie italiane rimanda subito all’idea di “governo”, di potere sovrano, in inglese invece è assai più vicina alla sua radice latina, e quindi in primis rimanda piuttosto all’idea di pilotaggio e alla figura del timoniere, gubernator, che guida, che governa sì la nave, ma agli ordini del suo comandante. Pure in questo caso siamo di fronte a grossi rischi (Ronza et al., 2008a).
Ci muoviamo dunque su un terreno purtroppo non privo di aree in dissesto. E soprattutto ci muoviamo attorno a un principio, quello della libertà, oggi in stato d’assedio. A tale stato d’assedio un contributo di primaria importanza viene dall’Unione Europea, le cui istituzioni non cessano di confermarsi come la principale sorgente di deriva neo-autoritaria del nostro tempo (Ronza et al., 2008b). Beninteso, l’attuale Unione Europea non è solo questo, ma oggi è questo in larga misura. Rimando in proposito ai seminari internazionali “Idee d’Europa”, promossi dall’IReR nel 2008-2009, e in particolare alla lectio magistralis conclusiva di Joseph Weiler.
D’altro canto il pilastro su cui poggia l’idea di democrazia è il convincimento che ogni persona umana capace di intendere e di volere sia ugualmente in grado di distinguere tra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, l’opportuno e l’inopportuno; e ciò presuppone che attorno a coppie di concetti fondamentali come questi sia possibile giungere in sostanza a un generale consenso. Nella misura in cui tale convincimento si attenua, come oggi avviene, cade anche il pilastro su cui poggiano la democrazia e la libertà. Non resta allora altro spazio se non quello della forza che poi, pur uguale nella sostanza, si esprime nei vari contesti o imponendosi puramente e semplicemente, oppure puntando allo stesso risultato attraverso forme di organizzazione del consenso. Perciò, diversamente da quanto pretende la cultura di massa predominante, il relativismo è il primo nemico della democrazia e il libertinaggio è il primo nemico della libertà.
Essendo enormemente più forte e più avanzato di ogni altra area del mondo, l’Occidente oggi non ha niente da temere dall’esterno, men che meno dal terrorismo islamista. Al Qaeda e cose simili sono come dei leoni scappati dal circo, pericolosi o anche esiziali per i primi passanti che incontrano, ma privi di qualsiasi possibilità di sopravvivere e pure privi, finché restano in vita, di qualsiasi possibilità di causare danni decisivi a chi si sono scelti come nemico. L’Occidente ha da temere soltanto da se stesso, dal suo rischio di implodere svuotato dall’interno appunto dal relativismo, dal libertinaggio e quindi conseguentemente da qualsiasi punto di riferimento forte, compreso l’essenziale punto di riferimento politico.
Questo è l’orizzonte complessivo in cui si situa l’urgenza di innovare la democrazia, una questione che implica da un lato novità istituzionali, ma dall’altro e prima ancora novità sociali e culturali.
Delega e democrazia di massa: un nesso non obbligatorio
Mentre ci sembra importante denunciare le tendenze neo-autoritarie, che stanno facendo la loro comparsa sulla scena della post-modernità, beninteso non per questo pretendiamo che le attuali forme della democrazia siano intoccabili e che qualunque variazione dei loro meccanismi sia perciò stesso un passo avanti verso l’autoritarismo. Sul piano istituzionale all’innovazione si aprono positivamente grandi spazi. Citiamo, tanto per fare un primo esempio, il fondamentale caso della delega. Pochi secoli di predominio assoluto della democrazia rappresentativa ci hanno abituato a pensare che democrazia e rappresentanza siano praticamente sinonimi. In effetti non è così: per la maggior parte della sua storia la democrazia non si è fondata sulla rappresentanza. I parlamenti e le altre assemblee politiche non erano affatto formate da rappresentanti eletti. Significativamente nella maggiore tra le democrazie più antiche d’Europa (e quindi del mondo), ossia la Svizzera, tuttora una legge votata dal Parlamento può sempre venire rimessa in discussione da un referendum popolare. Nei Cantoni le cui istituzioni sono rimaste più vicine alle origini, come ad esempio i Grigioni, nessun atto legislativo di qualche rilievo entra in vigore se non è stato confermato con referendum popolare, o comunque dopo che è scaduto il termine entro il quale un referendum abrogativo avrebbe potuto essere proposto. Si può dire in questo caso che il Parlamento cantonale funga da commissione parlamentare di un reale parlamento che è invece costituito dal popolo stesso del Cantone. In qualche piccolo Cantone la funzione legislativa è ancora in capo alla Landsgemeinde, ovvero all’assemblea di tutti i cittadini. Nel caso elvetico, insomma, gli elettori non danno comunque una delega incondizionata agli eletti. In certo modo gliela possono ritirare in ogni momento richiamando su di sé il ruolo di legislatori mediante il referendum, che può tra l’altro essere tanto abrogativo quanto istitutivo, e può riguardare qualsiasi materia. Nella democrazia originaria non c’era dunque altra forma di partecipazione politica se non quella costituita dalla propria presenza in consiglio e dalla votazione diretta su ogni singolo punto in discussione. In seguito però, come è noto (salvo i pochissimi casi sopra ricordati), tale principio venne meno perché incompatibile con il suffragio universale.
Pare che sin qui non se ne stiano traendo le conseguenze, ma sta di fatto che l’odierno straordinario sviluppo della telematica ha fatto venir meno l’incompatibilità di cui si diceva. Oggi un’assemblea virtuale dell’intero elettorato di un paese come l’Italia è divenuta tanto possibile da un punto di vista tecnico quanto sostenibile da un punto di vista economico. E di fatto già esiste, ma viene convocata solo nel quadro di trasmissioni televisive di intrattenimento per decidere quale sia la più bella canzone del momento e bazzecole del genere. Oppure viene interrogata nascostamente dai leaders politici con i cosiddetti “sondaggi”. Forse sarebbe invece il caso di cominciare a rendersi conto che la si potrebbe benissimo chiamare al voto – ovviamente con procedure rigorose e dopo un’adeguata campagna d’informazione preliminare — anche su una legge, su una nuova autostrada, sulle scelte in tema energetico. Ovviamente occorrerebbe sviluppare degli adeguati programmi (software), tali da garantire in primo luogo la segretezza del voto ecc., ma si tratta di qualcosa di tecnicamente possibile. La riduzione del ruolo delle assemblee elettive, accompagnata dal proporzionale sviluppo delle nuove forme di democrazia diretta qui delineate, è una possibile innovazione molto promettente delle moderne democrazie di massa. Consentirebbe tra l’altro di risolvere alla radice il problema costituito da quelle minoranze militanti che amano autoproclamarsi espressione autentica della vera volontà popolare, che sarebbe invece repressa o distorta dall’establishment politico. I problemi di fondo ancora da risolvere prima che tale assemblea virtuale possa divenire un’istituzione dello Stato sono piuttosto altri: in primo luogo quello della rinascita di un’opinione pubblica e in secondo luogo quello della sua adeguata e autentica informazione.
In tale contesto il “forum consultivo” diventa uno strumento di specifico interesse e di grande utilità purché sia chiaro che in democrazia un’assemblea di esperti non può e non deve mai sostituire il voto del popolo e rispettivamente dei suoi rappresentanti. Questo sia perché, come già si diceva, le decisioni fondamentali sono alla portata di qualsiasi persona capace di intendere e di volere e non soltanto degli esperti in quanto tali; sia perché non è detto che una scelta tecnicamente o scientificamente “giusta” sia perciò stesso anche opportuna nel momento dato. Non a caso, secondo una sapiente tradizione di pensiero fatta propria dal cristianesimo ma di origine platonica, alla decisione politica e all’azione di governo presiedono non la scienza bensì le virtù cardinali (Fortezza, Giustizia, Prudenza e Temperanza).
Viene però spesso osservato che la complessità delle questioni in gioco è la grande sfida che oggi si pone alla democrazia. In effetti non si tratta poi di una novità assoluta. Relativamente ai tempi le scelte politiche sono quasi sempre state complesse. È vero tuttavia che — essendo adesso disponibile, come mai prima, una massa enorme di informazioni in rapido aggiornamento – diventa sempre più difficile al proverbiale “non addetto ai lavori” giungere a sintetizzarle con la velocità oggi dovuta: una situazione ulteriormente peggiorata dal catastrofico declino della comunicazione di massa, sempre più strumento non di informazione e tanto meno di formazione, bensì di puro e semplice intrattenimento per lo più di bassa o bassissima lega. Ecco allora quale può essere il ruolo dell’esperto, e quindi correlativamente dei “forum consultivi”, nell’auspicata nuova stagione della democrazia: quello di dipanare la matassa dei dati per far emergere in modo semplice e chiaro il nocciolo della questione, ciò su cui può e deve infine esprimersi chiunque. Fissati con chiarezza questi limiti, è evidente il contributo di grande rilievo che la scienza può dare a una moderna democrazia. Bene lo sancisce il nuovo Statuto della Lombardia al suo art. 10, che recita:
- La Regione riconosce il ruolo centrale e trainante della ricerca scientifica e dell’innovazione per il conseguimento dei propri obiettivi in tutte le sfere della vita economica e sociale (…).
- La Regione predispone procedure e strumenti idonei ad adattare i suoi procedimenti all’esercizio responsabile del suo potere decisionale in materia di innovazione tecnico-scientifica.
Ribadisco concludendo su questo punto che deve tuttavia venire contrastata fermamente la tendenza a trasformare in decisione, e tanto più in decisione inappellabile, il giudizio degli esperti. E questo in primo luogo perché tale giudizio non perché “scientifico” è perciò stesso infallibile. E in secondo luogo, perché la sua eventuale certezza non basterebbe affatto a renderlo vincolante per i motivi già ricordati.
Gli orizzonti aperti dal nuovo Statuto lombardo del 2008
Ferma restando l’urgenza di introdurre nuovi meccanismi di espressione democratica della volontà politica proporzionati al nostro tempo, deve però a nostro avviso restare chiaro che in una moderna democrazia di massa il sostanziale presidio di libertà è la società civile, la sua vitalità, la valorizzazione della sua capacità di fornire non solo beni privati ma anche beni pubblici.
In tale prospettiva il nuovo Statuto della Lombardia, entrato in vigore il 1° settembre 2008 (cfr. www.consiglio.regione.lombardia.it), è un documento esemplare, che meriterebbe di venire ben più comunicato e ben più valorizzato di quanto sin qui si sia fatto. Il suo fondamentale art. 2 delinea un quadro istituzionale per vari aspetti unico in tutto l’Occidente e quindi in tutto il globo. “La Regione”, si sancisce al primo comma, “riconosce la persona umana come fondamento della comunità regionale e ispira ogni azione al riconoscimento e al rispetto della sua dignità mediante la tutela e la promozione dei diritti fondamentali e inalienabili dell’uomo”. La novità di questa formulazione è di enorme rilievo: per la prima volta ci si lascia alle spalle la pretesa di fondo dello Stato moderno, quella di porsi quale soggetto originario e autoreferenziale dell’intera convivenza umana. Di fronte alla spesso stucchevole pseudo-sacralizzazione della Carta costituzionale della Repubblica Italiana, peraltro sempre più spesso ingiustificata, sorprende – osserviamo per inciso – l’eccesso di understatement che accompagna lo Statuto lombardo sin dalla sua entrata in vigore.
Seguono poi altri cinque commi, il quarto dei quali articolato in 16 punti, che delineano un orizzonte politico del tutto diverso da quello oggi predominante.
L’art. 3 costituisce poi il più chiaro e ampio riconoscimento del principio di sussidiarietà che si possa trovare oggi in una carta costituzionale:
- La Regione riconosce e promuove il ruolo delle autonomie locali e funzionali e ispira la sua azione legislativa e amministrativa al principio di sussidiarietà.
- La Regione, in attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale, riconosce e favorisce l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e associati, delle famiglie, delle formazioni e delle istituzioni sociali, delle associazioni e degli enti civili e religiosi, garantendo il loro apporto nella programmazione e nella realizzazione dei diversi interventi e servizi pubblici, con le modalità stabilite dalla legge regionale.
È chiaro che al momento siamo di fronte più a un “dover essere” che a un “essere”, anche se in Regione Lombardia si registra il massimo tasso di attuazione del principio di sussidiarietà rilevabile nel nostro Paese, con l’esempio notevolissimo della sanità e quello di più recente sviluppo della scuola e dell’assistenza. Nondimeno la strada che è stata aperta, e sulla quale si procede a buon passo, volge verso un orizzonte tanto ampio quanto promettente.
Bibliografia
Ronza R. et al. (2008a), “Governance: un concetto da chiarire”, Confronti, 2, pp. 53-66
Ronza R. et al. (2008b), “Europa sì, ma quale?”, Confronti, 2, pp. 67-81