Pagina personale di Robi Ronza. Giornalista e scrittore italiano, esperto di affari internazionali, di problemi istituzionali, e di culture e identità locali.
Fare dello stupore e dell’emozione la leva principale del processo educativo: L’esperienza del corso “Fabbrica-spettacolo”
Fare dello stupore e dell’emozione la leva principale del processo educativo dal momento che il ripristino della bellezza come via alla conoscenza è fondamentale per la scuola e quindi per la vita.
Tra il 1993 e il 2008 sulla base di questa intuizione ebbe luogo a Milano, presso la scuola primaria “La Zolla”, un’ esperienza che continua ad essere attuale: il corso “fabbrica-spettacolo” a cura di Marina Molino e di Rodolfo Balzarotti.
Ogni volta veniva messo a tema un grande evento storico (ad esempio la Rivoluzione Francese) tratto dal programma di storia delle classi quarta o quinta, oppure un celebre testo letterario. L’evento veniva studiato anche con riguardo al costume e alla vita quotidiana del tempo. Quindi sulla base di tale studio si inventava e si scriveva insieme una vicenda con dei bambini e bambine come protagonisti. Infine questa vicenda veniva messa in scena avendone i partecipanti al corso preparato non solo i testi ma anche i costumi e le scene.
Stupore ed emozione di solito nella scuola non sono le forze e gli ingredienti principali dell’esperienza educativa (ci sono semplicemente perché i bambini sono bambini, ma tutto si ferma qui). Nel caso invece del corso “Fabbrica-spettacolo” attrattiva e stupore erano la porta, il motore di avviamento del lavoro espressivo. Perciò tutto il bambino vi era impegnato.
Basato su un metodo che si può definire artistico – sperimentale, il corso “Fabbrica-spettacolo” non era una semplice attività ricreativa bensì un’attività di apprendimento e di conoscenza, in questo caso della storia o della letteratura, nell’ambito del quale i piccoli allievi venivano stimolati a rispondere e a mettersi alla prova con tutto quel che ne consegue: resistenze, entusiasmi, fatiche e problemi sia teorici che pratici.
Per chi voglia saperne di più
Temi dei corsi, 1992-2006
1992-93 La Rivoluzione Francese
1993-94 Cristoforo Colombo
1994-95 Un tuffo nel Medioevo carolingio
1995-96 Roma Antica
1996-97 Il Medioevo a Firenze (secoli XIII-XIV)
1997-98 Quando Renzo e Lucia erano piccoli
1998-99 Storia di pace e di guerra (America del Nord, secolo XVII)
1999-2000 Così nacque Arlecchino
2000-2001 I comici dell’arte due: Pantalone colpisce ancora
2002-2003 Pinocchio
2003-2004 Occhio al Museo
2004-2005 Prova per un sogno
2005-2006 Romani e Galli
2007-2008 Carlo Magno
Il video “La commedia dell’arte e l’arte di fare la commedia” che documenta il corso 1999-2001, Così nacque Arlecchino, durata 17’
Rodolfo Balzarotti, Il corso “fabbrica-spettacolo”. Una proposta educativa, 2008
Rodolfo Balzarotti Il corso “fabbrica-spettacolo”. Una proposta educativa
Esprimere non è qualcosa di facoltativo; non è nemmeno un talento eccezionale di alcuni (gli “artisti”): è piuttosto condizione normale e diritto di ciascuno (anche se poi la maggior parte della gente perde per strada questa esigenza).
Perciò, se esprimersi è una necessità, non lo si può ridurre a semplice “esercitazione espressiva” (la moda oggi più diffusa nelle scuole: vedi il cosiddetto “laboratorio espressivo”).
Ciò vuol dire che c’è un nesso essenziale, anzi una identità, tra espressione e fiducia, confidenza: “I bambini e i geni sanno che non esistono ponti, ma solo l’acqua che si lascia attraversare” (René Char)
Il nostro lavoro ebbe inizio nel 1993, presso la scuola elementare paritaria “La Zolla” di Milano. Marina Molino teneva allora un corso libero di disegno con gli alunni di di 4° e 5°. Avendo casualmente fatto loro alcune domande sul programma di storia appena svolto (la Rivoluzione francese), propose loro di affrontare il tema con un metodo del tutto differente: “immaginate una storia di bambini della vostra età ambientata in quell’epoca, provate a disegnare scene e costumi, e cercate di immedesimarvi in quelle situazioni”. Ecco che, inventando una storia, immaginando dei personaggi, costruendo dei dialoghi, ricostruendo degli ambienti o degli scenari, interpretando dei personaggi, nei bambini scattava una paragone vivo tra loro stessi e l’oggetto dello studio – e anche un giudizio più personale e consapevole sulla vicenda storica. Nasceva così quello che da qualche anno abbiamo chiamato il corso “Fabbrica-spettacolo” e che da ormai 15 anni si tiene, sempre presso la “Zolla, in un pomeriggio la settimana, con gruppi di 10-15 bambini.
Il nome un po’ stravagante vuole evitare che si confonda con un corso di teatro o con i cosiddetti “laboratori” di espressività. In effetti non ci preme che i ragazzi imparino specificamente a recitare né vogliamo proporre loro una attività più “libera e creativa”, più “divertente” rispetto alla normale attività didattica, ma piuttosto far sì che, come metodo, essi siano sollecitati a compiere dei gesti, nel senso grande e profondo che a questa parola ha sempre dato don Luigi Giussani: un atto in cui, tendenzialmente almeno, tutta la persona è implicata. Il che, secondo la nostra esperienza, si verifica più facilmente e naturalmente in quelle attività che si è soliti chiamare “espressive”, perché si va più facilmente e naturalmente alla radice del problema educativo: è attraverso il metodo del concreto – l’uso del corpo e della mano o della voce, così come la drammatizzazione – che si riattivano molte funzioni rimaste atrofizzate. Ma soprattutto si aiutano i bambini a essere più interamente presenti a ciò che fanno – altrimenti prevalgono l’inerzia e la istintività, due facce della stessa medaglia. E inoltre si contribuisce a educare la loro capacità di mettersi in relazione reciproca, di lavorare insieme facendo necessariamente attenzione l’uno all’altro.
Tre osservazioni si possono fare, sulla base della nostra ormai non breve esperienza:
Anzitutto che la forma “drammaturgica”, anche se rudimentale, è strutturalmente completa, perché tiene insieme tutte le dimensioni della espressività: parola, immagine, gesto, azione, voce ecc. Si presenta quindi davvero come una esperienza “elementare”.
L’utilizzo di tutti questi registri espressivi è un modo di affronto della stessa didattica delle materie scolastiche, è cioè integrale nell’apprendimento. Non è una materia o un attività che si aggiunge, ma una energia che si infonde nelle materie esistenti in quanto sollecita maggiormente l’iniziativa personale del bambino – e anche dell’insegnante: è un insegnamento-apprendimento.
E’ un metodo di invenzione che non salta la realtà – la documentazione, la conoscenza dei dati, la fedeltà storica ecc – ma anzi la presuppone. Pur in forma elementare, come si è detto, si presta però attenzione alla verità storica, per quanto possibile. L’invenzione rispetta le regole e queste la stimolano. Per dirla con il Manzoni, qui l’invenzione è intesa come “simpatia”, cioè come capacità di immedesimazione in situazioni umane, in contesti umani anche lontani. Per esempio, nel primo anno abbiamo ambientato la storia dei bambini nel tempo della Rivoluzione francese. Alla fine, invece delle nozioni astratte, generiche e spesso confuse che avevano ricavato dal manuale, i bambini sono stati in grado di interrogarsi sulle contraddizioni di quel periodo.
E così, ogni anno abbiamo affrontato figure e momenti storici diversi: il viaggio di Colombo, Carlo Magno, la Firenze di Giotto e Dante, il Nordamerica all’epoca dei primi coloni inglesi e francesi, i comici dell’arte nel ‘500, ecc.
Vi sono poi state delle variazioni: invece di lavorare su la storia, abbiamo scelto una storia celebre: I promessi sposi o Pinocchio. Ma il metodo è stato sempre lo stesso.
Vogliamo soffermarci un istante su tre valori fondamentali che questo modo di lavorare ci ha permesso di scoprire o di riscoprire.
Il primo aspetto è la relazione: si educa e si insegna attraverso un rapporto. Questo però implica necessariamente un linguaggio: ciò che si apprende è propriamente un linguaggio, ma come modalità di rapporto e di dialogo anche con ciò che si studia.
La conseguenza, non sempre tenuta in sufficiente conto, è che il bambino deve essere sempre chiamato a rispondere, secondo una varietà di linguaggi più ricca e articolata possibile – parola, ma anche disegno, musica e movimento.
Tutto quanto detto si riassume in un terzo aspetto o valore: quello del concreto. In effetti il linguaggio e l’apprendimento del linguaggio sono sempre legati alla materia, al corpo e al gesto o alla voce. E’ quel tipo di concretezza che toglie all’insegnamento l’equivoco di una passività, premettendo di agganciare veramente l’io: senza qualcosa di concreto e materiale che richiama, che sollecita una risposta espressiva, il bambino non può aver lui stesso la verifica della propria crescita.
Questa insistenza sul concreto e sul sensibile non è minimamente una svalutazione delle facoltà di astrazione, pure fondamentale nel processo educativo. Semmai va detto che l’esperienza del concreto è il terreno solido necessario perché si innalzi l’edificio dell’astrazione e della concettualizzazione: è la ricchezza del concreto che dà forza all’astratto. E infatti l’astrazione non cala come dall’esterno sull’esperienza concreta, come una griglia sovrapposta, ma è in qualche modo in essa implicita, allo stesso modo in cui un bambino, per il semplice fatto di parlare, di esprimersi verbalmente, dispone già di competenze grammaticali di cui non sa ancora esibire il concetto. Lo stesso si può dire di altri codici, come quello grafico o musicale.
Per riassumere, possiamo dire che la questione che più ci preme non è tanto l’educazione artistica, ma piuttosto quella della educazione attraverso l’arte.
Qual è infatti il nodo centrale del problema educativo, che oggi emerge sempre più drammaticamente? Che cosa anzitutto l’educazione deve sconfiggere?
E’ quella inerzia che, secondo l’etimologia della parola, significa appunto “mancanza di arte”. Però, in questo contesto, intendiamo “arte” in un senso che non è specifico, che non riguarda determinate attività o discipline, ma riguarda la persona nella sua interezza, la dinamica della sua crescita umana.
Ora, questa inerzia – mancanza di arte – è un problema che riguarda tanto l’educatore quanto l’educando e si manifesta in modo opposto, che sono le due facce della stessa medaglia: l’istintività (dalla parte dell’educando) e l’ideologia (dalla parte dell’educatore).
Ripetiamo che, nel corso che proponiamo, la cosa più importante non è l’apprendimento di particolari tecniche che si definiscono comunemente “espressive”. La sua funzione è eminentemente educativa (anche se è ovvio che non potrebbe essere educativa senza una promozione, un affinamento di certe capacità, a seconda dei talenti dei bambini): sollecitare nei bambini una capacità di risposta a tutto quanto viene loro detto o proposto. Però una risposta non è tale se non ha dentro di sé una misura, sia pur minima, di rischio e di novità. Essa è il contrario sia della istintività sia della abitudine, intesa come “routine”. Non si deve confondere, come facilmente succede, la spontaneità con la istintività: la spontaneità va sempre riguadagnato con un lavoro, cioè con un impatto personale – e però sempre guidato – con la realtà (ricordiamo che l’autorità è sempre una funzione essenziale del rapporto con il reale.)
Quando, per esempio, si chiede a un bambini di disegnare qualcosa (“fammi un albero o un paesaggio d’inverno…”), ecco che gli stiamo proponendo un “problema” – cioè gli chiediamo di misurarsi, di misurare se stesso con quella determinata realtà attraverso un lavoro. L’oggetto, a questo punto, diventa un “problema” che gli richiede di “rendersi conto” spendendosi in un lavoro. Non è diverso il caso della richiesta di interpretare un certo personaggio in una storia: è di nuovo un “problema” in cui il bambino è chiamato a “rendersi conto”, questa volta attraverso un lavoro di immedesimazione.
Sottolineiamo questo valore del “rendersi conto”: risolvere un problema nel senso che si è detto equivale a trovare una corrispondenza tra sé e l’oggetto – che implica per ciò stesso anche una esperienza di “soddisfazione”. E’ questo che fa crescere sia nella conoscenza che nella moralità, che non possono, in tal senso, essere mai separate. E così si attua veramente la libertà.
C’è un corollario a quanto appena detto: in un contesto espressivo si capisce meglio il valore della disciplina, in quanto un certo ordine è direttamente e immediatamente funzionale a un atto espressivo e soprattutto alla costruzione di un’opera. Se le cose stanno così, un simile metodo educativo (cioè l’attenzione e la valorizzazione del fattore espressivo) dovrebbe come tale innervare l’intera attività didattica. Come si è accennato all’inizio, stiamo infatti parlando di un metodo e non di tecniche o strumenti didattici particolari. Non vogliamo proporre una strategia facilitante, un modo per rende meno faticoso, più “attraente” l’apprendimento della materia di studio. Si tratta invece di un metodo più esigente – sia per chi insegna che per chi apprende – per il fatto che a nessuno consente la “routine”. E questo ci sembra particolarmente urgente nelle circostanze presenti, in cui sempre più si denuncia una emergenza educativa, cioè un “deficit” di educazione di cui sono vittime i bambini i giovani delle ultime generazioni.
Per concludere.
Abbiamo scoperto che ci può esser una misteriosa e profonda compagnia tra il bambino e l’adulto. Per esempio, quando un bambino disegna, l’adulto può, deve intervenire, suggerendo qualcosa?
Ora, ci sembra naturale e inevitabile che l’adulto intervenga, che dia delle indicazioni. Sarebbe astratto, intellettualistico, che dicesse semplicemente: “fa’ quello che ti senti” o “fa’ quello che ti viene in mente”.
Invece gli dirà: “fai questo” (“fai gli alberi mossi dal vento”). Gli darà cioè un’indicazione sul “che”, il più possibile unitaria, globale, implicita, perché sia la libertà del bambino ad esplicitare il “come”.
Il “come”, la “tecnica”, si svilupperà naturalmente dall’interesse che adulto e bambino mettono in comune, dal fatto che entrambi si sintonizzano su una cosa, su un oggetto.
Ecco come il grande si può trovare alla pari con il piccolo, senza “mettersi alla pari”. Piuttosto, tutti e due tendono ad aver la stessa statura: perché il bambino deve crescere nel medesimo tempo e con la stessa necessità per cui l’adulto deve trovare la propria “struttura-bambina” portante. Questa è la garanzia del rapporto possibile.
meravigliosa esperienza… direi che sarebbe assolutamente da ‘rifare’ per il beneficio che ne trarrebbero i partecipanti